19 agosto 2016

Gagliano Giuseppe Anticapitalismo e biodiversità nelle riflessioni di Francesco Gesualdi e Vandana Shiva

In questa breve introduzione presenteremo sinteticamente i concetti fondamentali che stanno alla base delle disamine di Francesco Gesualdi e di Vandana Shiva così come emergono rispettivamente da Manuale per un consumo responsabile (1999) e da Campi di Battaglia, biodiversità e agricoltura industriale (2001). Il testo di Francesco Gesualdi Manuale per un consumo responsabile è una guida per il consumatore che voglia possedere dei criteri ispirati alla solidarietà e alla giustizia. Ciò chiaramente significa che l’atto dell’acquistare assume un valore etico e che il consumatore, comprando un prodotto, prende su di sé alcune importanti responsabilità, le quali non hanno una valenza meramente economicistica ma anche politica (quantunque lo scrittore non si associ ad alcun partito). Il testo che potrebbe essere interpretato come una sorta di indagine politico-giudiziaria volta a denunciare i soprusi perseguiti dalle multinazionali, presenta una pars destruens imperniata sul concetto di consumo critico e una pars construens incentrata sulla nozione di mercato equo e solidale. Come spesso capita ai testi di questo genere (si vedano i libri degli autori “decrescenti”), le nozioni di principio sono giustificate con una serie di esempi molto dettagliati. Il dato empirico appare quindi importante nell’economia del saggio sia per quanto concerne la parte critica dove sono presenti vari esempi di proteste che hanno condizionato l’azione delle multinazionali sia per quanto concerne la parte propositiva che comprende l’illustrazione di una serie di esperienze legate al mercato equo e solidale. In questa breve introduzione più che concentraci su questi dati ci preme però cercare di estrapolare, per quanto è possibile, i principi che fondano il pensiero di Gesualdi (e di Shiva) e la conseguente azione “politica”. Inoltre, prima di citare siffatti principi, è bene precisare che Gesualdi (come Shiva) contesta l’economia di mercato soprattutto perché sarebbe imperniata esclusivamente sul profitto. I trattati internazionali si basano sul dogma liberista secondo cui il segreto per arrivare al benessere generalizzato starebbe nell’apertura globale dell’economia e nell’assenza di interventi politici volti a limitare l’avanzata del mercato. Tuttavia questo principio sarebbe smentito dai fatti perché gli abitanti del Nord, vale a dire il 20% della popolazione mondiale, consumerebbero più di due terzi dei metalli e del legname prodotti a livello mondiale, brucerebbero il 70% di tutta l’energia prodotta nel mondo e mangerebbero il 60% di tutto il cibo raccolto sul pianeta. Quindi, lungi dal determinare un miglioramento delle condizioni di vita di tutta l’umanità, l’economia capitalistica avrebbe fomentato una scandalosa ingiustizia attribuendo al Nord la ricchezza e lasciando al Sud la povertà. L’ingiustizia si aggrava se si pensa che gli abitanti del Nord possono condurre un alto tenore di vita solo perché le multinazionali occidentali sfruttano il Sud del mondo depredandolo di ogni risorsa. Questi presupposti, come accade in autori come Latouche, non conducono Gesualdi a sostenere che il Sud debba svilupparsi quanto il Nord perché, alla stregua di Shiva, anche lo scrittore italiano crede che le risorse del nostro pianeta siano esauribili, siano cioè limitate. Attraverso una serie di dati l’autore mostra pertanto che se gli abitanti del Sud riuscissero a raggiungere il tenore di vita degli abitanti del Nord, il pianeta non potrebbe sopportare questa situazione perché semplicemente le risorse terminerebbero. Se ne deduce che, anche per questo motivo, il Nord ha interesse a lasciare il Sud in povertà, ma soprattutto si pongono le premesse per capire che la soluzione non può essere quella di far sviluppare il Sud sino a portarlo ai livelli del Nord. La soluzione è invece quella di adottare un altro stile di vita, quello della sobrietà, sul quale torneremo più avanti. Infatti, solo se si consuma meno, le risorse potranno bastare per tutti e potranno essere distribuite più equamente. Questo discorso si collega naturalmente con la critica alle modalità tramite le quali l’economia di mercato si espande globalmente. Essa si espande solo per espandersi (è riproposta in parte la critica marxiana al capitalismo che mira soltanto ad accumulare sempre più capitale confondendo decisamente il mezzo – il denaro – col fine). Come se non bastasse, tale globale dominio, avendo come meta il mero allargamento del dominio e il profitto, fa del mondo un oggetto da dominare, in altri termini i metodi adoperati non hanno alcun rispetto per l’ambiente e per l’uomo. Questi ultimi, come rileva soprattutto Shiva, sono oggetto di una continua riduzione, di una cosalizzazione che conduce alla loro commercializzazione e privatizzazione. Entrambi gli autori notano come l’ambiente sarebbe così messo a repentaglio da sostanze chimiche e da fertilizzanti che sarebbero dannosi sia per le colture che per l’uomo – e l’uomo, soprattutto dove ciò è maggiormente possibile a causa di una inadeguata legislazione sul lavoro, viene sfruttato e umiliato come o peggio di quanto accadesse nei secoli passati. Il depauperamento della natura, come Shiva rileva in modo più analitico e circostanziato di Gesualdi, arriva sino alla creazione di cibi geneticamente modificati all’interno dei quali è stato inserito DNA animale per ottenere una maggiore resa e, solo apparentemente, una maggiore qualità. Shiva infatti critica e spiega la nozione di “miniera genetica” che, inverando il riduzionismo al quale accennavamo considera gli esseri viventi come una miniera di geni che possono essere ricombinati a piacimento dall’uomo per migliorare la natura (cioè, secondo questo paradigma, per accrescere il capitale). La riorganizzazione del mondo biologico è attuata secondo l’autrice anche tramite atti di pirateria nei confronti delle risorse del Terzo mondo e delle conoscenze autoctone che hanno valore solo se, dopo un trattamento tecnogenetico, divengono un prodotto tutelato dai diritti d’autore (brevetti). Si starebbe quindi assistendo a una nuova fase del capitalismo perché l’industria della chimica si starebbe interessando, come mai prima, all’ambito biologico, cosa che, tra l’altro, avrebbe riscontro in una serie di fusioni tra corporation. L’industria insomma punterebbe sempre di più sulla creazione di prodotti come pesticidi e fertilizzanti artificiali e sulla trasformazione degli organismi viventi perché tali pratiche farebbero arricchire sulle spalle dei poveri le multinazionali e le stesse industrie (anch’esse sempre più internazionali, multinazionali). In altri termini, la trasformazione della biodiversità in merce sarebbe un’operazione tecnica della biotecnologia, e un compito legale, affidato ai diritti di proprietà intellettuale. La commercializzazione della vita avrebbe così come presupposto la reificazione degli enti. Emblematico in questo senso è il discorso sfiorato anche da Gesualdi sulla tecnologia terminator che consiste nel rendere i semi sterili, nel trasformarli cioè da mezzi di produzione (ogni seme produce una pianta che produce altri semi da cui nascerà un’altra pianta) a prodotti finiti (dal seme non potranno nascere altre piante e i contadini saranno costretti a comprare nuovi semi). La sterilità dei semi artificialmente indotta potrebbe essere “curata” poi con fertilizzanti e agenti chimici forniti spesso dalle stesse multinazionali che hanno modificato e venduto i semi. È chiaro dunque come il fine dell’ingegneria sia ancora una volta il profitto. Anche in questo senso ci sono affinità col pensiero marxiano perché, se l’unico obiettivo del capitalista (in questo caso del dirigente delle multinazionali e degli scienziati al loro soldo) è il profitto, si bada solo ad accrescerlo dislocando le aziende nei posti in cui il costo del lavoro è inferiore (è inferiore perché l’operaio che non ha alternative è costretto per vivere a lavorare tutto il giorno e senza alcun diritto per un salario da fame). La nostra sicurezza economica si basa quindi per entrambi gli autori sullo sfruttamento dei lavoratori del Sud del mondo, delle donne e dei bambini (Gesualdi analizza per esempio il caso dei palloni cuciti dai bambini in Pakistan per la Nike). Lo scrittore spiega anche come spesso aziende dal nome rassicurante siano invece collegate a grandi multinazionali che violano tutte le regole internazionali sul lavoro e sull’ambiente. Si tratta del sistema degli appalti: le multinazionali con sede negli Usa o in Gran Bretagna progettano i prodotti, poi, per realizzarli, cercano delle aziende in Asia o in America Latina dove il costo del lavoro sia inferiore e dove le aziende appaltate possano sfruttare i lavoratori senza coinvolgere i marchi delle multinazionali appaltatrici. Considerato questo scenario, secondo Gesualdi, bisogna in primo luogo dedicarsi alla ricerca per trovare i luoghi in cui lo sfruttamento avviene e documentarlo con precisione; in secondo luogo bisogna adottare delle tecniche che inducano le multinazionali a cambiare la propria politica aziendale (è emblematico in questo senso il caso Del Monte e lo sfruttamento dei lavoratori nelle piantagioni di ananas in Kenja); in terzo luogo bisogna creare delle realtà che si basino su principi opposti a quelli capitalistici affinché gradualmente l’economia possa intraprendere una nuova strada o almeno affinché in piccole realtà degradate si possano fondare delle concrete alternative allo sfruttamento generalizzato. È interessante notare come il discorso di Gesualdi sia sì rivoluzionario perché mette sotto accusa il sistema a partire dai suoi fondamenti strutturali arrivando quasi a criticare lo stesso concetto di lavoro retribuito e la proprietà privata, ma progressivo, nel senso che si parte dal metodo meno cruento per arrivare, solo se necessario, a quello più radicale (il quale comunque non contempla, diversamente dalla tradizione marxiana, l’uso della violenza). Un discorso questo che, quantunque meno esplicito, è presente anche nell’analisi di Shiva, la quale è coinvolta personalmente in esperienze economiche alternative evitando però che la critica sfoci in forme violente di opposizione al sistema e appoggiando l’ideologia pacifista nonché il retroterra esperienziale e ideale della non-violenza (non a caso uno degli autori più citati dalla filosofa è Gandhi). In entrambi gli autori ciò non significa crogiolarsi astrattamente nell’utopia di una pace universale, ma impegnarsi in lotte concrete. Per quanto riguarda il boicottaggio – che è considerato una forma radicale di protesta e che è analizzato da Gesualdi sin a partire dalle sue origini – una volta individuata la controparte e allestito il materiale informativo, si stringono contatti con gli altri gruppi e, prima di passare all’azione, si mostra all’azienda in questione il materiale preparato chiedendole se preferisca aderire alle richieste o se voglia affrontare il boicottaggio. Anche se il boicottaggio non riesce, osserva l’autore, spesso raggiunge ugualmente alcuni obiettivi collaterali come far conoscere un argomento di cui altrimenti nessuno avrebbe saputo. Non sempre comunque si arriva al boicottaggio e per catalizzare l’attenzione della stampa, ci si deve industriare con atti che siano in grado di suscitare la curiosità dell’informazione spesso restia (come lo Stato) a dare risalto a proteste che danneggino le aziende. D’altronde, anche quando le aziende vincano la causa con i contestatori, dal processo emergono fatti veritieri che ledono comunque l’immagine della ditta; la protesta quindi è vincente di sovente anche quando l’accusatore formalmente perde. Tra le azioni di maggiore incidenza sta per Gesualdi quella del consumo critico che riguarda in maniera diretta la coscienza di chi compra. Ci pare infatti che se il boicottaggio vero e proprio abbisogni necessariamente di un ingente sforzo collettivo (creare contatti tra associazioni e sindacati e coinvolgere i media è la minima premessa del suo successo), il consumo critico chiami in causa ognuno di noi indipendentemente dalla mobilitazione collettiva nel senso che ognuno, quando compra, compie individualmente una scelta e per fare questa scelta deve avere le informazioni che gli permettano di non essere complice dello sfruttamento. Infatti, come si diceva, l’idea principale, a nostro avviso ancora una volta adattata dalla costellazione marxiana, è che le multinazionali vivono soltanto grazie ai consumatori. Ciò significa che, se i consumatori non comprano i prodotti delle multinazionali, queste falliscono necessariamente. I motivi che devono indurre qualcuno a non consumare un prodotto riguardano ovviamente i concetti dei quali si parlava all’inizio di questa introduzione: se, dopo uno studio accurato, si scopre che l’azienda che sta dietro un prodotto non è integerrima dal punto di vista etico, se si scopre per esempio che sfrutta il lavoro infantile, non dà ai lavoratori i diritti sindacali, che non li paga facendoli lavorare in condizioni disumane oppure se si scopre che la multinazionale utilizza nella creazione dei suoi prodotti sostanze dannose per l’ambiente e per l’uomo (per esempio Monsanto o Del Monte), allora è legittimo, anzi per Gesualdi appare doveroso, non comprarli per far cambiare modo di agire all’azienda o per farla fallire. È importante considerare che dal punto di vista logico non ci siano molte alternative: un consumatore che compri un prodotto che non sia stato creato rispettando i criteri di giustizia e di solidarietà, è complice della multinazionale, la tiene in vita con la sua azione. Ciò significa che, diversamente da quanto si crede, le multinazionali non sono dei colossi imbattibili e non influenzabili essendo il loro potere del tutto subordinato alle scelte del consumatore. L’impegno e la propaganda dei Centri che si ispirano al consumo critico appare dunque essenziale e, in linea teorica, tutt’altro che velleitario. Per questo un compito importante appare quello della ricerca e della divulgazione delle informazioni ottenute poiché le multinazionali, investendo milioni di dollari sulla pubblicità, fanno di tutto per accreditare la loro immagine etica. L’autore infatti nota come da un lato le aziende abbiano interesse a nascondere la provenienza dei prodotti e come, dall’altra, essendo i consumatori sempre più sensibili alle tematiche introdotte dal consumo etico, cerchino di ripulire la loro immagine investendo in pubblicità che mostrino il loro impegno sociale (si pensi alle campagne di Benetton sui bambini). Tutto ciò implica che il consumatore debba fare spesso un grande sforzo per conoscere la vera storia dei prodotti che acquista. Anche per questo, cioè per costringere le aziende a operare eticamente e a rendere pubblico il loro operato e le condanne che hanno subito, sono sorti in tutta Europa dei centri di ricerca simili al Cep (Usa) e al New Consumer (Inghilterra) che svolgono delle accurate indagini sull’operato delle aziende pubblicando periodicamente i loro rapporti. Oltre a questi enti sono nate associazioni (gratuite o a pagamento) che rilasciano all’azienda dei certificati attestanti il corretto comportamento della stessa azienda multinazionale e delle imprese delle quali è appaltatrice. Tali certificati, ai quali corrispondono dei marchi ecologici, dovrebbero quindi essere una garanzia per il consumatore critico (anche se, come emergerà dal testo, non mancano i dubbi). L’autore ha modo di descrivere l’attività del Centro nuovo modello di sviluppo del quale è direttore e che si ispira alle esperienze di Cep e New Consumer e in parte all’esperienza di SOS, gruppo nato in Olanda nel 1959 e operante direttamente nelle realtà disagiate. Il Centro non si limita alle ricerche e alla stampa di guide utili al consumatore né si limita alle denunce, ma intende creare delle nuove realtà che indichino per così dire la via alla società affinché si incammini verso una nuova forma di economia in cui i produttori, gli intermediari e i consumatori possano essere tutti equamente rispettati. Una forma di economia che ancora una volta trova riscontro negli scritti di Shiva e che è fondata sulla condivisione delle risorse, sulla interazione sociale e sulla solidarietà – in un parola è fondata sulla equità e non sul mero profitto e crea intorno a sé un contesto socializzato in cui il lavoratore è accudito non solo economicamente ma, potremmo dire, totalmente con la creazione di centri di ristoro, ospedali, scuole per i figli degli operai. Gesualdi, dopo aver riportato la storia del mercato equo e solidale ne illustra i principi che immediatamente si manifestano come alternativi a quelli dell’economia di mercato. Nelle nuove forme di economia sono centrali fattori quali il rispetto dell’ambiente e dei lavoratori, ma soprattutto il rispetto dei produttori. Questo aspetto si capisce soltanto se si considera il contesto in cui il caffè, il cacao, le banane, gli ananas vengono prodotti. Infatti, come rileva anche Shiva, le multinazionali non si servono soltanto di grandi piantagioni, ma anche di una miriade di piccoli produttori del luogo che, non avendo alternative, vendono alle multinazionali e ai grandi grossisti i loro prodotti a un prezzo irrisorio. Prodotti sui quali poi le multinazionali guadagneranno tantissimo senza che il produttore possa partecipare in alcun modo agli utili. Considerato questo orizzonte, il commercio equo e solidale interviene aiutando i contadini locali a creare delle aziende ispirate ai criteri della solidarietà e della giustizia e le associazioni si organizzano per comprare questi prodotti e smerciarli a un prezzo concordato col produttore in Europa e negli Usa. Tale prezzo deve permettere al produttore di guadagnare una cifra dignitosa che gli garantisca di sostenere la sua famiglia e di non essere costretto a vendere il campo. Spesso infatti le multinazionali pagano i prodotti che ordinano molto tempo dopo ai produttori che così sono costretti a fallire vendendo per disperazione i lori terreni alle stesse multinazionali. I volontari del mercato equo e solidale per evitare che ciò accada pagano i produttori in anticipo. I prodotti sono venduti in tutto il mondo tramite le Botteghe del mondo ma si stanno diffondendo anche nella grande distribuzione grazie all’introduzione di alcune certificazioni che attestano la qualità e l’eticità del prodotto (si vedano nel testo i dettagli). Il mercato equo e solidale si fonda quindi sull’idea secondo cui i produttori debbano essere pagati adeguatamente e allo stesso modo i consumatori debbano avere il diritto di conoscere nel dettaglio la storia del prodotto che comprano. Il prezzo è deciso dalle cooperative che smerciano il prodotto in Europa in accordo con i produttori e per questo risulta essere “equo”. Chiaramente tale collegamento tra produttori e consumatori si esplicita anche nella reazione ai soprusi perché i produttori possono organizzare in patria varie forme di protesta e, allo stesso tempo, i consumatori in giro per il mondo possono attuare forme di consumo critico e boicottare le merci prodotte non eticamente. È importante sottolineare anche un altro concetto: i popoli del Sud non si aiutano facendo loro la carità, ma appunto introducendo nuove forme di mercato che, come si diceva, pongano sullo stesso piano produttori, distributori e consumatori. È chiaro che questo meccanismo miri, ancora una volta, a contrastare l’idea secondo cui il Sud deve essere aiutato ad arrivare ai livelli di produzione del Nord; infatti per Gesualdi sia in Occidente che nei paesi sottosviluppati deve prevalere uno stile improntato alla sobrietà, uno stile cioè che consideri essenziale la differenza tra bisogni e desideri e tra lavoro e sicurezza economica. Marxianamente Gesualdi crede che il mezzo (il lavoro) sia diventato il fine e che quindi basti creare occupazione (cioè il lavoro) per arrivare alla felicità. Invero, egli ritiene che il lavoro sia solo un mezzo che non deve essere confuso col fine (la sicurezza economica) e che tale fine possa essere perseguito creando un nuovo modello di sviluppo. In modo non difforme da Gesualdi anche Shiva, dopo aver distinto tra sostenibilità delle risorse naturali e sostenibilità socioeconomica, spiega come la seconda debba essere subordinata alla prima e non debba invece significare il mero aumento del capitale e del profitto. In altri termini, alla stregua di autori come Latouche, Shiva contesta il concetto stesso di sostenibilità laddove esso significhi il mero progresso materiale delle nazioni sottosviluppate perseguito col solo fine del profitto o dell’aumento del Pil e con i mezzi descritti che, invero, distruggendo la biodiversità, conducono i popoli alla miseria. La sostenibilità quindi deve essere ritenuta valida solo se è in grado conservare le interazioni interne ai sistemi agricoli le quali riattivano la fertilità del suolo, l’umidità, la biodiversità favorendo sistemi veramente sostenibili e in grado di nutrire il mondo. Il concetto di sostenibilità dovrà essere inteso in senso più ampio e riguardare anche il miglioramento della vita umana nella sua totalità e la difesa dei più deboli (donne, anziani e bambini) attuata sempre nel rispetto della natura e degli animali poiché ogni cosa animata ha per Shiva i suoi diritti che devono essere rispettati. Si tratta del concetto di Famiglia della Terra che si contrappone alla nozione di miniera genetica. La prima nozione interpreta la terra come una Madre premurosa costituita essa stessa dalla armoniosa interazione tra gli organismi che la compongono e la seconda, sulla quale torneremo, prevede, viceversa, che gli esseri viventi siano dei meri contenitori di geni manipolabili, esportabili e ricombinabili a piacimento. Una manipolazione che, con la scusa del progresso, del miglioramento della salute e della lotta alla fame, perora soltanto l’avanzamento del capitalismo e della sua ottica oggettivizzante. Questo modello sradicante può essere combattuto inculcando una nuova mentalità che rispetti tutti gli enti e il loro contesto di nascita e che consideri il consumo subordinato alla felicità. La nuova dimensione nella quale si muovono Gesualdi e Shiva pone al centro della riflessione economica valori come la socialità, la serenità, la riscoperta del tempo, la cura per gli altri, la gratuità, la qualità (al posto della quantità), la sobrietà e la sazietà (al posto dell’inappagante consumismo), in una parola la felicità. Inoltre il nuovo modello di sviluppo proposto da Gesuladi, al quale fanno da eco le idee di Shiva, ricorda palesemente i concetti dei “decrescenti” perché si basa sulla valorizzazione del riuso, della riparazione dei prodotti, sui negozi dell’usato e sull’utilizzo comune di strumenti quotidiani come lavatrici, ferri da stiro, macchine, bici, fotocopiatrici e ogni altra cosa che possa essere adoperata senza essere posseduta (emerge infatti la differenza tra uso e possesso). In Gesualdi si arriva persino a vagheggiare l’introduzione di una moneta locale e l’introduzione di un reddito minimo per ogni disoccupato. L’economia dovrebbe quindi camminare su due binari, uno è quello contraddistinto da queste novità che è caratterizzato dal lavoro privato di ognuno e dal lavoro che si fa gratis per gli altri (un elettricista aggiusta la tv a un calzolaio e viceversa) e l’altro basato sul lavoro retribuito guidato però dai criteri della solidarietà e dell’equità. Gesualdi conia il neologismo di “prosumatore” che sta a indicare il fatto che gli uomini debbano essere contemporaneamente consumatori e produttori del loro prodotto e arriva a sostenere un principio che si presenta in tutta la sua paradossalità rivoluzionaria: per essere felici bisogna far diminuire l’occupazione e non aumentarla. Tutte queste nozioni, che contribuiscono indubbiamente ad arricchire un modo alternativo di concepire lo sviluppo, trovano riscontro in una serie di esempi di battaglie andate a buon fine e che hanno visto come protagonisti lo stesso Centro nuovo modello di sviluppo (o altri gruppi simili) da una parte e dall’altra potenti multinazionali come Del Monte, Nike, Monsanto, Levi’s e Chiquita. Come abbiano notato la disamina di Francesco Gesualdi ricorda sotto vari aspetti le analisi di Vandana Shiva, quantunque i due autori provengano da esperienze diverse e abbiano una formazione differente, essendo Shiva una scienziata e filosofa e Gesualdi un attivista vicino alle idee di Don Milani. In Campi di battaglia sono più marcati i presupposti filosofico-scientifici che fondano direttamente le riflessioni di carattere economico. Già dalle prime righe del saggio, nelle quali l’autrice rivela significativamente il suo interesse per la fisica quantistica e il suo rifiuto del meccanicismo cartesiano, si colgono le premesse teoriche che poi reggeranno l’intera argomentazione. La studiosa ha a cuore la difesa della biodiversità e crede che la terra, come ogni organismo che contiene, sia un sistema complesso all’interno del quale il piccolo ha l’importanza del grande e una sua insostituibile funzione. Un sistema potremmo dire vivente in cui i danni microscopici determinano conseguenze macroscopiche potenzialmente catastrofiche. È chiaro come l’autrice muova una critica all’antropocentrismo e, rievocando anche se spesso implicitamente l’analisi di celebri filosofi come Heidegger, ritiene che l’uomo adotti nel giudicare la natura e se stesso un metodo riduzionistico sacrificando all’aritmetica e alla quantificazione ogni aspetto del creato. Tale weltanschauung che fa del mondo un insieme slegato di oggetti da misurare è il sostrato che fonda la visione capitalistica del mondo per la quale, come per Gesualdi, conta solo il profitto e l’espansione del dominio dell’uomo sul mondo. L’uomo invece, per Shiva come per Gesualdi, è uno dei tanti esseri viventi e la sua felicità è integralmente funzionale al suo rispettoso inserimento nel tutto vivente. Se non si rispetta la biodiversità non si può rispettare neanche la differenza tra le culture e ciò che resta, questo appare evidente, è un homo oeconomicus sradicato dal suo ambiente e che continuamente oltraggia la sua prodiga madre, la Terra. Si tratta insomma della riproposizione del modello olistico (quasi a tratti ilozoistico nel vagheggiare la presenza di un’anima del mondo) che è integrato da Shiva con considerazioni di stampo scientifico ed economico. La diversità di culture è subordinata al rispetto della biodiversità perché i vari popoli dei paesi sottosviluppati vivono dei prodotti naturali e di quelli che coltivano da secoli ai quali sono legati gli usi e i costumi, le religioni dei medesimi popoli. L’esportazione delle monoculture e l’avvento dei grandi latifondi promossi entrambi dalle multinazionali, distruggendo la biodiversità, polverizzano anche le culture dei popoli. Inoltre, come si diceva, per ottenere il massimo profitto le multinazionali finanziano le ricerche sulla ingegneria genetica che permette di creare organismi geneticamente modificati funzionali all’aumento della produzione (e, per Shiva e Gesualdi, dannosi per la biodiversità, quindi per l’etnodiversità e per la salute umana). Shiva rileva, ancora una volta alla stregua di Gesualdi, come il Nord sia ricco di capitali finanziari ma povero di biodiversità e come valga il contrario per il Sud. L’autrice nota anche come la colonizzazione si fondasse sul trasferimento dei prodotti tipici della biodiversità del Sud a Nord e sulla sostituzione nelle stesse colonie della biodiversità con le monocolture. Oggi si starebbe affacciando una nuova era di “bioimperialismo” fondata sul saccheggio biologico del Terzo mondo e della biosfera e sull’uso dei brevetti, sull’industrializzazione del cibo e sulla globalizzazione del mercato. Collegati a questo argomento sono i concetti di “sindrome della terra vuota” e di “monocoltura della mente”. Il primo prevede che i luoghi del pianeta che non vengono sfruttati dall’uomo occidentale (monocoltura, ingegneria genetica, industria, latifondo) siano vuoti perché improduttivi. Il secondo invece insiste sulla fissazione dell’uomo occidentale per la monocoltura funzionale all’ottenimento del profitto maggiore. Tale mentalità impedisce di vedere nella diversità una ricchezza e contribuisce alla sua distruzione. A questi concetti si contrappone la visione che abbiamo sintetizzato secondo cui il pianeta è paragonabile a una famiglia all’interno della quale ogni membro riveste la sua insostituibile importanza. Per Shiva spostare un gene da un organismo ad un altro non significa creare un nuovo organismo, quindi è del tutto illegittimo l’uso dei brevetti applicato alla vita. La pratica dei brevetti sarebbe secondo la filosofa il mezzo principale tramite il quale le multinazionali praticano la biopirateria. Infatti i brevetti rilasciati da organismi internazionali compiacenti e che hanno interesse a favorire le multinazionali non rispettano quasi mai i criteri di “novità, non-ovvietà e utilità”, visto che spesso vengono brevettate delle specie derivate dalla semplice ibridazione di piante autoctone o delle specie che derivano da particolari trattamenti (cosa che però non implica secondo Shiva la creazione di un nuovo organismo). Tutto ciò sarebbe agevolato e permesso da una serie di accordi internazionali sanciti negli Usa come il WTO e sarebbe regolamentato da articoli di stampo liberistico favorevoli alle multinazionali come il Trip, ma allo stesso modo sarebbe osteggiato dalle organizzazioni ambientaliste e da importanti raduni mondiali come quello di Seattle del 1999. La filosofa denuncia anche la collusione tra gli scienziati e le multinazionali auspicando che gli scienziati non facciano ricerca per vendere un prodotto e rileva come, già a partire dalla Rivoluzione verde, la biodiversità sia stata messa a repentaglio tramite l’inserimento di metodi industriali nell’agricoltura che hanno favorito l’introduzione di alcune specie e la monocoltura. La situazione sarebbe poi degenerata con la Seconda rivoluzione verde legata, come abbiamo detto, alla bioingegneria (da qui in poi l’uomo non si sarebbe limitato a incrociare piante incrociabili ma avrebbe manipolato geneticamente le piante incrociando specie non incrociabili e creando dei mostri potenzialmente pericolosi non solo per la biodiversità ma anche per l’uomo). La seconda rivoluzione verde si baserebbe su una interpretazione riduzionistica dei geni intesi come il programma della vita. Questa interpretazione giustificherebbe il fatto che i geni vengano estrapolati dal loro organismo di provenienza per essere inseriti in altri organismi dimenticando che anche i geni, alla stregua di ogni altro elemento naturale, funzionano come devono solo nel loro contesto organico – essi hanno cioè un rapporto col Tutto nel quale sono e non devono essere intesi come oggetti trasferibili da un corpo all’altro. Inoltre i geni verrebbero bombardati in un punto imprecisato del genoma e questo implicherebbe l’impossibilità di determinare il loro comportamento all’interno del nuovo organismo e gli effetti che tale inserimento potrebbe implicare. Anche l’uso di vettori derivanti da virus e plasmidi patogeni causerebbe l’indebolimento del sistema immunitario dell’organismo accogliente. L’autrice illustra molti esempi che dimostrerebbero come i “cibi Frankenstein” (OGM) abbiano effetti negativi non solo sull’uomo, ma talvolta anche sugli insetti e sulle altre colture (si chiede per esempio se non sia legittimo domandarsi se un organismo in cui sia stato iniettato il gene di ragni velenosi possa provocare dei danni anche a chi ingerisce il cibo o agli altri insetti). Spesso l’introduzione degli Ogm rovinerebbe la diversità degli ecosistemi perché le nuove piante tenderebbero a causa delle modificazioni genetiche a sostituirsi a quelle locali. L’uso degli Ogm inoltre determina di sovente l’acquisto di altre sostanze che sono vendute dalle stesse ditte che smerciano i semi e spesso si ingenerano delle dinamiche di indebitamento che conducono i contadini finanche al suicidio (nel testo vengono indicati i dati). Uno dei motivi per i quali Shiva desidera la preservazione della biodiversità è eminentemente economico poiché a suo avviso le multinazionali e quindi l’agricoltura industriale considerano solo la quantità di un unico prodotto della pianta (per esempio i chicchi di grano) scartando il resto (e dunque in generale ci sarebbe un aumento dei costi). Ciò sarebbe dannoso perché invece nell’agricoltura tradizionale si utilizza tutto dei prodotti (la paglia per esempio che viene adoperata sia per le abitazioni che come foraggio). Insomma ancora una volta si tratta del riduzionismo che è sorretto dalla visione meccanicistica del mondo. Esattamente come Gesuladi Shiva ha a cura le piccole realtà locali e dimostra come la pluricoltura, oltre ad essere più produttiva, garantisca un livello di vita migliore. La filosofa, dando al suo pensiero una piegatura politica, denuncia come Gesualdi il livello carente di democrazia. Infatti i cittadini dovrebbero essere informati circa la pericolosità degli Ogm, ma questo non accadrebbe sufficientemente e le stesse etichette non sarebbero, per ovvi motivi di interesse, esaustive circa la storia del prodotto. A questa situazione la scrittrice contrappone la democrazia della vita per la quale tutti gli esseri viventi hanno dei diritti e vanno rispettati e per la quale tutti gli uomini devono partecipare alle scelte economiche e che concernono l’ambiente. Da una parte ci sarebbe pertanto una concezione del mondo basata su profitti e monopoli, sulle monocolture, sulla scienza riduzionista e su una non responsabile diffusione delle nuove tecnologie; e dall’altra una concezione del mondo fondata sulla solidarietà e sulla condivisione, sulla diversità e sulla complessità dinamica, sulla biosicurezza e sulla democrazia diffusa. Come vedremo nel testo, Shiva alla stregua di Gesualdi porta avanti una serie di esempi di realtà e iniziative che contribuiscono a porre un freno alla monocoltura della mente e alla ideologia della terra vuota. Tra i tanti ricordiamo l’esperienza di Navdanya, il movimento dei “salvatori di semi” che ha il merito di aver creato undici banche di semi in sette stati indiani permettendo a molti agricoltori di abbandonare sementi costose e costosi prodotti chimici. Tale passaggio, che ha determinato un aumento dell’imput interno, avrebbe favorito un’agricoltura sostenibile e allo stesso tempo vantaggiosa, vale a dire in grado di determinare un aumento del reddito. Le banche avrebbero aiutato i contadini a salvarsi dalle dinamiche ingeneratisi tramite l’introduzione della chimica e avrebbero contribuito a bloccare l’epidemia dei suicidi avvenuti a causa dei fallimenti. Questi e altri esempi sorretti da una concezione filosofica che recupera elementi della filosofia indiana integrati in un sistema organicistico, esalta una forma di libertà che ha senso e valore solo se viene rispettata la biodiversità. Si tratta della libertà dei poveri di poter coltivare e consumare il loro stesso cibo e della libertà di accedere ai farmaci al di là di ogni monopolio, della libertà che passa per l’emancipazione dal nuovo capitalismo occidentale. Una libertà che, come ha intuito anche Gesualdi, non è un’utopia astratta o un’ideale ma qualcosa di concreto, il frutto di esperienze reali e di scelte critiche, di proteste ma anche di costruzioni alternative, una libertà, come dice Shiva contrapponendosi all’apparente strapotere delle multinazionali, che è chiaramente a portata di mano e di cui, citando Gesualdi, siamo pienamente responsabili e capaci.

 
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